Non so niente dell’Africa. Non voglio saperne niente, per continuare a scoprirla, ad impararla. Non si può ‘sapere’ un continente. Non si può sapere un Paese. In Camerun, da dove proviene la mia famiglia, sono un estraneo. Ma non un estraneo qualunque. La mia memoria, virtuale, ricomposta, è la garanzia della mia appartenenza. Mi ricordo cose che non posso aver vissuto. Quando passeggio per una città come Yaoundé, cammino sempre come un avventuriero che calpesta per la prima volta un territorio sconosciuto e forse ostile. Il mio universo africano si è limitato a lungo a qualche casa e a due città dal ricordo sbiadito. Non sono mai andato oltre Yaoundé, in quel nord islamico, nomade, arido, in cui uomini e donne sembrano uscire da un libro diverso da quello che ho letto. La loro bellezza non ha niente a che vedere con quella che credo di conoscere, con la gente della foresta. Le loro lingue sono diverse e mi sono estranee. A dire la verità, oltre questa frontiera simbolica rappresentata dalla capitale, inizia – e le sue ragioni sono impresse nella mia memoria – un altro Paese che non posso ‘pensare’. Un Paese che infatti non esiste. Un non-Paese. Un miraggio. Un’illusione. Un Paese dai contorni sfocati, banditi dalla memoria dei miei. Da lì, da quelle viscere aride, era uscito il postino divenuto Presidente. Queste terre per me simboleggiano ancora oggi il male fatto da una persona sola. E gli abitanti ne portano tutti la responsabilità. La loro innocenza non conta. E’ una questione personale. Irrazionale, senza dubbio.
Procedo per un lungo viale col nome di una data che non ricordo più. Senz’altro una tappa della storia del mio Paese. Oltrepasso l’hotel Hilton. Questo viale è troppo grande per questa città. Sembra che le macchine vi si perdano. Arrivato all’incrocio della posta, sono attratto da un ingorgo causato da un cavaliere che sfreccia al galoppo attorno alla rotatoria. Senza badare ai clacson e agli insulti che partono a razzo. E’ un uomo del nord. Ne emana una certa lentezza, una nobiltà che mi ammalia. Come se il suo tempo non ci riguardasse. Si infila in una strada laterale e scompare. Mi sembra di aver colto nel suo sguardo la ricerca di un altrove inaccessibile. Da bambino li vedevo ai mercati. Venivano a vendere merce, dalle loro montagne, dalle spianate aride prive di industrie, frutto del loro lavoro di conciatori: borse, armi tradizionali, babbucce, porta monete… Ci era proibito rivolgere loro la parola. Non meritavano questo ostracismo, ovviamente. Ma la memoria dei miei è testarda.
Ho camminato così per le strade di Gerusalemme. Seguendo degli sconosciuti che accettavano di rimettermi sulla via che avevo perso. Ero un estraneo. Un turista. E potevo tuffarmi senza pudore nella globalità di ciò che scoprivo, con la volontà di capire tutto. Nessun sentimento superfluo di appartenenza mi creava un handicap. E’ probabilmente questa ricettività, questa apertura particolare che mi hanno permesso di capire meglio il mondo. Questa cosiddetta appartenenza ci acceca. Crea dei doveri a cui non siamo sempre sicuri di far fronte, perché sopravviva il mondo ancestrale. Ma il mito ancestrale non è un elemento indefettibile della nostra percezione del nostro proprio io? Esiste un altro modo di pensare noi stessi, di radicarci su una terra o su una qualunque entità geografica, un modo diverso da questo rapimento emotivo? Da questa appropriazione abusiva ed unica? Come quando abbiamo letto un libro, ci siamo immaginati i nostri eroi e all’improvviso il libro diventa un film. Il film si confronta con il nostro film interiore. Le immagini interferiscono l’una con l’altra, si mischiano e si annullano. Dov’è la realtà a cui facevamo riferimento? Non esiste più. E siamo di nuovo soli. Un po’ più soli di prima. Con questa rivelazione di un mondo che formicola, vibra ed evolve al di fuori di noi. Un mondo che ci rimanda a una vecchia storia raccontata davanti a un caminetto che non abbiamo conosciuto. Visi familiari ma anche estranei, la cui familiarità deriva proprio dal fatto che in fin dei conti sono ancorati da qualche parte.
Questo ancoraggio, ancora una volta, dipende soltanto dalla soggettività e dalla mia necessità di voler vedere come fratelli tutti gli sconosciuti che incontro. L’illusione della fratellanza africana passa da questi labirinti che fanno sì che ci sentiamo africani solo dopo che ci tuffiamo fuori dall’Africa. I miei primi amici camerunesi, anzi africani dovrei dire, erano gente di Parigi o di altrove. In questo ritorno che si fa su noi stessi non appena si prende coscienza di questa necessaria affinità. Non importa l’aspetto artificioso che, a volte, prelude a questi incontri. Non si scappa. Non respingiamo un uomo che viene verso di noi, con la mano tesa, chiamandoci fratello. Malgrado un certo disagio. L’usurpazione di una parola la cui natura è esclusiva. Ogni volta che sentivo questa parola pronunciata da altri, rivolta a me, una parte di me non poteva far a meno di sorridere o di fare una smorfia di fronte all’inganno. Così succede con le parole che sono prerogative del mio fratello o della mia sorella, con i quali formavamo, formiamo, un clan impermeabile a qualsiasi intrusione. Viviamo la nostra africanità nel cerchio ristrettissimo di casa nostra e dei fantasmi con cui siamo stati nutriti.
La gente che ci circonda risveglia questa africanità. Questo atavismo profondo. Ricordo. C’era sole. La gente rideva e parlava forte, in una lingua che non capivo bene; si agitavano attorno a me chiamandomi “papà”, “papino”. Lo sguardo di mio padre. Il sorriso di mia madre. Era la prima volta che mettevo piede in questo Paese, che era anche il mio. I miei unici orizzonti fino ad allora erano stati unicamente i campi innevati e i tetti appuntiti, i fuochi nel camino. I Natali bianchi. Ricordo. Sono tornato. Ancora e ancora. Ho saputo capire e parlare quella lingua bassa attraverso le parole e i gesti di mio nonno. I visi sono invecchiati. Ma rimane sempre, vivido, il ricordo di quest’altra vita. Di questo battesimo, questa iniziazione. Ciò che ignoro, la mia pelle, i miei piedi, i miei occhi lo sanno. Qui non sarò mai completamente perso. Conosco questa terra rossa. Così rossa. Questa terra del Paese della foresta. Conosco queste donne dai fianchi pieni. Questo bambino di cui avrei potuto essere il padre e che si gira ora verso di me con un sorriso da vincitore.
Bisogna percorrere un Paese, un continente, per afferrare l’inafferrabile. Ricordo viaggi in pullman o in treno. Li ho realmente fatti o si tratta ancora una volta di una stratificazione di ricordi presi da altri? Ricordo atmosfere brulicanti e rumorose. Animali da cortile, uomini e donne ammucchiati, grida di bambini: l’Africa.
Edea fu un’illuminazione. Ricordo ancora una ragazzina che vendeva arachidi. Parlava bassa. Avevo realizzato di colpo che eravamo nel mio paese. In un paese in cui tutti parlavano la lingua dei miei genitori. La mia lingua. L’Africa non ci agevola questo sentimento di appartenenza totale. Il francese è l’unica lingua che può essere capita da tutti. Con l’inglese, un po’ meno. Cos’è una nazione, se non una lingua? Questa ragazzina parlava bassa. A questa lingua bassa devo tutte le mie rivelazioni. Alla trappola del significante contro il significato e all’inevitabile imbastardimento di cui siamo tutti attori attivi o passivi. La lingua materna sarebbe la lingua della madre. Mentre invece significa lingua-madre. Mia madre era una lingua oppure il francese ancora una volta, la lingua che parlo meno peggio, potrebbe sostituirsi a questa assenza? Il bastardo, secondo la definizione machista che ancora colora la parola, è un bambino non riconosciuto dal padre. Un essere illegittimo. Non esiste, paradossalmente, una parola per definire un bambino senza madre. Forse perché gli spiriti ottusi dei secoli passati partivano sempre dal principio fisiologico che un bambino esce sempre dal ventre di una donna. Il bastardo è il bambino senza padre. In un sistema in cui l’attribuzione del nome, cioè l’esistenza sociale, passa necessariamente dal padre. La madre è un’evidenza che non si mette mai in discussione. Mi chiedo però se non si possa, legittimamente, invertire il fardello della prova. A conti fatti, se mia madre sparisse, chi sarei? E cosa diventerebbe questa lingua materna nella quale sono stato svezzato?
Questa lingua che sentivo parlare ovunque attorno a me ad Edea era la sua. Quando eravamo bambini, in Europa, lei si sforzava assieme a mio padre di trasmetterci questo ancoraggio. Perché potessimo trovarci come nel Paese che non avevamo mai conosciuto e che non poteva essere, ne erano consapevoli, nostro fino in fondo. La lingua dunque, come unico territorio possibile. Perché gli echi di questa strana musica ci rimandassero immancabilmente ad un’appartenenza inalienabile. Una legittimità. La lingua, secondo i miei genitori, era un Paese reale ma anche immaginario. Un Paese che poteva avvicinarsi soltanto nell’intimità della parola e della cerchia familiare. Un’iniziazione incantatoria. I miei genitori avrebbero desiderato che potessimo pensare come loro. Partendo dal principio hegeliano che dice che pensiamo nelle parole, avevano voluto farci pensare in bassa, cioè nella lingua e in quanto membri di una comunità, visto che la parola che indica una lingua spesso si confonde con quella che indica la nazionalità. Un inglese parla inglese. Un tedesco parla tedesco. Ma che diavolo di lingua parlano i popoli la cui lingua non corrisponde alla nazione? Che parlano gli americano o i messicani? Una lingua non è forse nient’altro che un miraggio, senza le immagini che vi sono collegate? Esiste soltanto nella verità di ciò che evoca. Altrimenti è solo un insieme di segni astratti e vuoti. I miei genitori ci hanno trasmesso dei segni ai quali hanno attaccato delle immagini subliminali. I loro stessi fantasmi ci hanno fatto da fantasma. E l’idea che ci siamo fatti di questo Paese che è anche il nostro non era nient’altro che il fantasma di un fantasma.
Bisogna oltrepassare le parole per arrivare, infine, a decifrare il senso nascosto delle parole. Mi chiedo a volte se non siamo tutti, a gradi diversi, costretti a mettere in atto questo negoziato semantico perenne. Ci possiamo sentire a casa in una lingua soltanto in quanto questa lingua ci parla. Cioè, in quanto traduce il più fedelmente possibile le nostre emozioni singolari. Nella scrittura, questo percorso diventa più radicale, dato che non desideriamo comunicare con l’altro, ma innanzitutto tradurre a noi stessi, in una lingua che, qualunque sia la nostra familiarità con essa, ci resterà sempre problematica. E’ quanto lo scrittore haitiano René Depestre intendeva dire quando scriveva: “ho preso la lingua francese e le ho fatto un bastardo”. La lingua è emblematica, annunciatrice di un mondo ideale nella misura in cui ci ha insegnato a non fidarci della purezza, questo mito pericoloso di cui il nostro secolo ha potuto misurare l’assurdità.
Da bambino, la lingua mi restava misteriosa. Oggi mi pare ancora più inabbordabile di allora. Mi piace lo choc dell’incontro improbabile. La gestualità. Il balletto oscuro che evoca l’oralità. Perché una lingua è innanzitutto una cosa che si parla prima di una cosa che si scrive. Da lì la necessità che sentiva Gustave Flaubert di rinchiudersi nel suo ‘sfogatoio’ per testare le righe che aveva appena steso sul foglio.
Mi ritorna in mente un film che avevo afferrato al volo. Were Were Liking, poeta e drammaturgo, rispondeva alla domanda di una giornalista. Were parlava del popolo bassa. Attaccava dicendo che il popolo bassa, da cui proveniva, non aveva prodotto niente di tangibile in campo artistico, contrariamente ai bamoun o ai bamileke, le cui opere sono visibili in tutti i musei etnologici del mondo. Fui sorpreso di sentirmi così messo in discussione. Tradito nel sentimento e nella fierezza bassa e, per di più, da una “sorella”. La mia reazione mi sorprendeva: affermava un’appartenenza forte e un’identificazione che non avevo, fino a quel momento, mai messo in discussione.
Dimostrava, meglio di qualunque discorso, che forse i miei genitori non avevano fallito con il loro progetto di fare di me un autentico bassa, con la semplice magia della nostra lingua. Sullo schermo, Were continuava: i bassa non hanno scolpito, diceva, semplicemente perché non provavano nessuna venerazione per la materialità, per la permanenza e l’incarnazione delle cose. Il loro luogo di predilezione era la parola e ne erano divenuti i padroni.
Ci chiederemo, probabilmente con legittimità, che c’entrano queste considerazioni vagamente autobiografiche in un testo che dovrebbe parlare di una mostra virtuale, di taccuini, di creazione contemporanea, di Africa. E’ che, in un continente in cui l’oralità supera ancora tutte le forme di comunicazione, lo spazio fittizio di uno schermo rimanda ai miei occhi ad una finzione reale. L’arte è uno specchio. Uno specchio doppio, che proietta una mise en abyme infinita: la finzione diventa la realtà di una finzione che non è altro che la realtà, in un cerchio infinito. Boris Vian scriveva: “Questa storia è vera, visto che l’ho inventata da cima a fondo”. Avrebbe potuto dire il contrario. Questa storia è finta visto che riproduce la realtà. Ma qual è l’essenza della realtà se non una proiezione soggettiva? Un punto di vista? In arte la materializzazione di un concetto o di una storia illustra bene questa impossibilità di possedere il mondo nella sua globalità. Possiamo afferrarne solo dei frammenti. Come potremmo pensare noi stessi nel mondo, cioè pensare a noi stessi in un qualunque ambiente, se non operiamo una manipolazione che ci permetta di riempire i vuoti che ci sfuggono? L’arte non fa altro, ci dà l’illusione di un mondo strutturato. La struttura di questo mondo si iscrive nelle linee e tra le linee del tratto. Una storia che, secondo i precetti aristotelici, avrebbe un inizio ed una fine. Ma non esiste nessun inizio, nessuna fine. Esistono soltanto frammenti, pezzi, momenti. La vita non è altro che un’operazione di transustanziazione. Un’utile lusinga che ci permette di non diventare pazzi. Le favole sono un’altra forma di narrazione molto fedele alla realtà perché è chiaro dall’inizio che si tratta di un’illusione. Ed è solamente questa affermazione iniziale che ci permette di catapultarci dall’altra parte dello specchio, di intravedere la verità. Perché essa non può essere afferrata altrimenti che in modo allegorico, metaforico.
Si potrebbe assimilare la creazione artistica ad un’opera letteraria. Significa che i modi di rappresentazione di uno spazio originale – e non si applicherebbe unicamente all’Africa – dovrebbero essere ricercati nella cultura africana stessa. Si è parlato, a proposito di scrittori latino-americani come Gabriel García Márques, di “realismo magico” ; mi pare che l’Africa non dovrebbe essere esclusa da questa famiglia. Infatti, la base delle lingue africane è l’oralità. Nei racconti, l’interazione è continua; da una narrazione all’altra, sullo stesso argomento, il narratore si prende la libertà di arricchire il racconto con le proprie invenzioni. Così la sceneggiatura diventa una trama concettuale simbolica che, come in cadaveri eccellenti, si trasforma ed evolve a seconda del narratore. Potremmo così immaginare che la storia di partenza sia completamente diversa da quella di arrivo. Perché, in fin dei conti, non è ciò che deve essere detto che importa ma ciò che deve essere capito.
Uno scritto non si carica di psicologia dato che l’azione è consustanziale all’inconscio che spinge ad agire. Così, la psicologia nei racconti africani non è alla ricerca di lunghi monologhi sibillini, ma del cuore dell’azione che determina, a posteriori, il campo della riflessione. Ciò significherebbe, in altri termini, che teoricamente è inutile sapere come va a finire. Perché la fine non è lo scopo della narrazione. E’ la narrazione stessa che determina il proprio oggetto. Di conseguenza le descrizioni non hanno mai a che fare con il simbolismo caro agli autori occidentali del diciannovesimo secolo, ma sono esse stesse completamente al servizio dell’azione. E poiché l’azione è subordinata agli obblighi della narrazione, la realtà così come la percepiamo diventa un ostacolo che il narratore non si accolla, visto che vuole andare avanti, a qualunque costo, per tenere il pubblico con il fiato sospeso. La verosimiglianza non ha alcuna importanza, se il racconto è sviluppato in forma convincente. Si potrebbe quindi dire che il racconto africano, senza alcuna teorizzazione iniziale, si accosta al naturalismo spirituale che Huysmans auspicava. Non servono grandi idee per concepire un racconto, un film, ma grandi azioni sì. Come in Stevenson in cui “l’avventura è l’essenza della storia stessa”.
Questa mostra, malgrado il dispositivo tecnologico, corrisponde meglio di ogni altra forma al tempo africano. Un tempo che non saprebbe limitarsi allo spazio di un museo. Il museo è un’invenzione europea. L’Africa animista crede nei segni, nella metafora, nella piacevole menzogna della creazione umana.
Questo insieme di taccuini, ognuno col proprio carattere e con la propria identità, è come il riflesso di un pensiero africano in opera. Un continente la cui storia è innanzitutto costituita da immaterialità.