Ispirazioni

Clare Butcher

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Clare Butcher

Lettere mute

Tracciare un segno implica sempre una qualche forma di cecità. Una sorta di spazio invisibile che sussiste tra la prima occorrenza di un pensiero o di un’esperienza e la sua successiva traduzione in un documento. Si tratta dello spazio muto, nascosto, come ci ricorda Verne Harris, all’interno del quale opera e crea la memoria.1 È attraverso questi invisibili, taciti atti di reminiscenza e immaginazione che di fatto prende forma l’evento.

La prima volta che ho sentito parlare del progetto lettera27 – ormai quasi quattro anni fa – sono stata attratta dall’idea di una lettera inesistente: un elemento mancante che si aggiunge al tradizionale alfabeto a 26 lettere, quello dalla A alla Z.

Che aspetto potrebbe avere questa lettera in più?

Quali parole comincerebbero o terminerebbero con questa lettera?

Si tratta di una lettera muta?

Come la “h” di “white” o la “w” di “answer”?

Il bianco non è propriamente un colore. E le risposte richiedono innanzitutto una domanda.

L’idea di un elemento aggiuntivo implica che vi sia una mancanza, l’esigenza di un supporto ausiliario. Si introduce un elemento aggiuntivo perché completa o rende più agevole qualcos’altro, ma dovrebbe rimanere accessorio: invisibile.

Tracciare, apporre un segno – e quindi giocare a registrare o cancellare – è in fondo come inventarsi una lettera immaginaria. Cosa hanno in comune una nuova lettera dell’alfabeto, la pagina bianca di un taccuino, lo schizzo estemporaneo di un artista, il germe di un’idea e il progetto lettera27 basato sulla corrispondenza virtuale (le email, l’incorporeità di skype e gli allegati in PDF)? Il loro riferimento a un’invisibile struttura di supporto.

La funzione delle strutture di supporto, secondo Céline Condorelli, “ci invita a riconsiderare le nostre rispettive posizioni nel mondo”. Le strutture che forniscono supporto sono spesso marginali – come una consonante muta o la traccia di un segno a matita cancellato. Eppure, alla fine, queste strutture esercitano una forza fondamentale su qualcos’altro: sia esso di natura artistica, storica o architettonica. Il ruolo di questo tipo di “impalcatura” è sottovalutato, in quanto tendiamo a considerarne il valore separatamente dal prodotto finale.3 Lo facciamo, apparentemente, in virtù dell’autonomia dell’oggetto, della sua capacità di sussistere indipendentemente da supporti esterni. Non sembriamo disposti ad ammettere che la vulnerabilità, anzi, il paradosso di una struttura di supporto stia nel fatto che, per quanto temporanea, fragile o invisibile, di fatto essa rivela l’intrinseca interdipendenza tra l’oggetto supportato e il suo supporto.

I taccuini presentati qui da lettera27 sono, in questo senso, azioni tese alla costruzione di una sorta di archivio. E per “archivio”, qui, non intendo qualcosa di statico, un archivio con la A maiuscola, così come non intendo pensare all’Africa come a qualcosa di stilizzato. Certo, il famoso scrittore di Trinidad e Tobago VS Naipaul ci ha detto che “l’anima africana è una tabula rasa sulla quale può essere scritto di tutto, sulla quale può essere trasposta ogni fantasia.”4 E se volessimo applicare il concetto di tabula rasa e di trasponibilità al nostro discorso sul supporto invisibile?

L’episteme della pratica artistica contemporanea (sia a livello locale che internazionale) in questa parte del mondo (cioè in Africa) non è stata sufficientemente esplorata ed è rimasta invisibile per via delle strutture fortemente repressive del passato e dell’attuale mancanza di circuiti di sostegno (il digital divide è solo uno dei problemi presenti in tal senso). L’economia della visibilità – attraverso archivi, mostre o collezioni d’arte – è precaria e i pochi che vengono quindi trasposti sulla “tabula rasa” di cui parla VS Naipaul spesso agiscono più da mediatori culturali, o da simboli inflazionati della cultura nazionale, che non da artisti. È un argomento trito e ritrito. Ma continua a sussistere.

Deve esserci una terza via: un modo per aggiungere un elemento di oscurità (la lettera muta dell’alfabeto) senza assecondare i meccanismi di mercato costruiti intorno a ciò che è esotico o fuori dal comune. Abbiamo bisogno di strutture di supporto capaci di generare cecità, così da cominciare a vedere la storia dell’arte dal punto di vista dell’ignoranza – a partire da ciò che non conosciamo. Per ri-immaginare, rimodellare ciò che è stato dimenticato e trasposto su quella tabula rasa.

Thomas de Quincey ha indicato l’esistenza di un elemento mancante nel processo del pensiero creativo con la parola discurrendo. Ecco quindi che “correndo qua e là, a destra e a sinistra, mettendo insieme elementi diversi”, è possibile “ricavare in maniera mediata una terza capacità di comprensione.”5 Questa terza modalità di comprensione – che prende in considerazione il supporto, ciò che non è rappresentato, ciò che è fragile – è possibile soltanto in filigrana. Una lettera muta si sente soltanto nel contesto della parola che la circonda. La “b” di “debt” o di “doubt” non si sente.

I taccuini degli artisti presentati da lettera27 rappresentano una sorta di archivio fragile, che rende evidente quella terza invisibile capacità di comprensione: la traccia, la cancellatura, lo spazio bianco – le contingenze e i “discurrendo” che integrano la pratica creativa ovunque essa sia (non solo qui). Sono queste le lettere mute: missive indirizzate a un mondo fatto di posizioni relative. Segni incisi sulle impalcature invisibili dell’interdipendenza.

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Cécile Bourne-Farrell