Lo sappiamo bene: Internet ha un peso sempre maggiore nella nostra vita, facilitando e accrescendo le nostre relazioni, intensificando le connessioni fra le diverse parti del pianeta. Alimenta le speranze di una democrazia diffusa e reticolare ma consente anche e nel contempo, procedure sempre più capillari di controllo politico e di sfruttamento economico della vita delle persone.
Alle retoriche del villaggio globale si sovrappone la realtà di un digital divide che pone certe zone del pianeta e in particolare l’Africa, in posizione d’inferiorità (Fuchs, Horak 2008): se internet è virtualmente aperto a chiunque, di fatto le possibilità di accedervi e di restare connessi, non sono egualmente distribuite fra tutti. Su internet siamo tutti presenti ma non tutti egualmente visibili e influenti: quanto appare l’Africa e quanto incidono gli africani nel darne un’immagine e rappresentazione?
Che spazio possono avere in Africa i vaneggiamenti delle utopie cyborg che propugnavano la liberazione dalla materialità dell’esistenza corporea e la sua sostituzione con una seconda vita, un’eterea realtà virtuale che, come in Second Life, assomiglia molto a un cartone animato? Pure evasioni che si scontrano con la durezza della vita e del dominio, ma anche con usi sociali della rete, che intensificano le relazioni nella vita “reale” invece di mirare a soppiantarla con paradisi artificiali. Wikipedia e in particolare WikiAfrica ci mostrano la possibilità di una costruzione partecipata e condivisa del sapere, partendo dal basso; le rivolte nordafricane della primavera araba ci hanno mostrato, ancora una volta, il potenziale di mobilitazione sociale della rete.
Per quanto le retoriche dei cybernauti (così prossime a quelle del libero mercato globalizzato) enfatizzino la cancellazione delle distanze spaziali nell’ubiquità della comunicazione in tempo reale, i migranti che partendo dalle coste libiche e tunisine sbarcano Lampedusa, sanno bene che l’Africa è qualcosa di più di una sitografia. L’Africa non si riduce a un significante fluttuante, deterritorializzato e liberamente consumabile: la realtà è che chi viene da quella terra, trova molti ostacoli sulla sua strada.
Tutto questo non ha niente a che fare con il fatto che l’Africa sia “restata indietro” o con le resistenze di un’Africa “tradizionale” che si opporrebbe alla modernità: la visione primitivista di un’Africa eterna, al di fuori del tempo e consegnata allo spazio (quello delle savane, dei deserti e delle foreste, del cuore di tenebra di Conrad, delle esplorazioni di Livingstone e della Parigi-Dakar) fa in realtà il paio con la concezione postmoderna di un mondo-supermarket, in cui le differenze culturali sono merci da esporre sugli scaffali, per poi finire nei nostri carrelli della spesa con un tocco di mouse (Bargna 2010).
Come l’oriente dell’orientalismo (Said 1999) anche l’Africa si dibatte fra reale e immaginario, è molto meno solida e omogenea di quel che possiamo pensare, ma è anche molto più coriacea, resistente e ingombrante di quel che vorremmo: non è la terra in cui “culture”, “tribù”, “etnie” sono incapsulate in uno spazio al di fuori della storia, condannate alla ripetizione o alla sparizione, ma neppure un luogo dell’anima (com’è nelle nostre proiezioni esotizzanti) o un deposito di forme ed esperienze estetiche (maschere, danze e safari) che si possono scegliere da un catalogo, per comporre il proprio bouquet, che si tratti di viaggi turistici o di World Art.
Internet ci mette del suo. La rete come ogni tecnologia è un prodotto sociale dotato di un sostrato materiale, è costruita culturalmente e a sua volta produce cultura. In questo non è diversa da altre tecnologie di elaborazione e comunicazione del sapere che hanno mediato il nostro rapporto con la realtà, dando forma al mondo e a noi stessi: le mnemotecniche delle società orali, le scritture ideogrammatiche o alfabetiche, la stampa, la cartografia, la fotografia, il cinema e il museo, tanto per dirne alcune.
Quel che noi chiamiamo “Africa” è plasmato e riplasmato, reso visibile, dalle tecnologie sociali che le danno forma. Da questo punto di vista l’Africa non sta solo in Africa ma anche altrove (e certo anche su Internet): è la risultante di una molteplicità di relazioni diseguali e di sguardi perlopiù asimmetrici, che si succedono nel tempo e si distribuiscono nello spazio. Sguardi anonimi ma anche fortemente individualizzati da cui emergono autori e icone: Hegel, Karen Blixen, Tarzan, Marcel Griaule, Josephine Baker, Samuel Eto’o, Tintin, Nelson Mandela e Barack Obama, insieme a molti altri, hanno contribuito in vario modo a tracciare quell’immagine dell’Africa, contradditoria, stratificata e complessa, che oggi passa per i mediascape globali.
Affinché però posa esistere l’Africa, come realtà significativa, come oggetto su cui si sviluppa un sapere e si esercita un potere, bisogna poterla abbracciare con lo sguardo, che da fuori la si veda nel suo insieme, rimarcandone l’unitarietà a scapito delle differenze: occorre un Vasco de Gama che faccia il periplo del Capo di Buona Speranza, una tecnologia di navigazione che glielo consenta, una cartografia che permetta di tradurne l’esperienza in un sapere comunicabile a distanza, consentendo ad altri di ripercorrerne la rotta (Bargna 1998; Latour 1986). L’Africa così come l’Europa nasce nella connessione che la costituisce come un interno rispetto a un esterno: è fin dall’inizio una realtà interculturale e artificiale. Non per difetto, ma perché sono questi i tratti di qualsiasi creazione sociale e culturale.
E’ nell’incorporazione e reazione davanti allo sguardo che l’altro esercita su di noi, che sentiamo di appartenere a una realtà comune, che si chiami Africa, Europa, America. Finché stiamo fra di noi, appare solo ciò che ci distingue gli uni dagli altri e identità e differenze si stabiliscono su una diversa scala e a partire da altri criteri (l’appartenenza a villaggi o gruppi sociali diversi, ad esempio). Così anche il panafricanismo non nasce in Africa ma a Parigi e New York, nella diaspora, per poi cercare di fare l’Africa, alimentando un movimento di liberazione dal colonialismo che attinge le sue risorse proprio dai discorsi coloniali, missionari ed etnologici che gli occidentali hanno fatto sull’Africa (Mudimbe 2007). L’afrocentrismo di certi filosofi africani (Asante 1987) non è allora meno etnocentrico dell’eurocentrismo e di qualsiasi altro nativismo: non siamo mai soli e non siamo mai i primi. Anche l’autoctonia è solo un fantasma, siamo tutti migranti.
Partendo da quanto abbiamo detto su internet e sull’Africa proviamo ora interrogarci sul senso di una mostra virtuale sull’Africa. Abbiamo affermato l’impossibilità di risolvere la materialità dell’esistente in una qualche illusoria o mistificante realtà virtuale, ma anche sostenuto l’esistenza di una sorta di scarto costitutivo, di separazione dell’Africa da se stessa, che ne fa il correlato di una relazione con l’esterno più che una produzione endogena.
Mostre e musei, dalle grandi esposizioni universali e coloniali fino alle biennali d’arte contemporanea, sono stati uno dei luoghi e dei dispositivi entro cui, in vario modo, si è data forma all’Africa (Arnoldi 1999; Ravenhill 1996; Amselle 2007). Lì ha preso corpo un’Africa che in quanto immagine è nel contempo reale e virtuale, finzione che implica uno scarto ma che produce nel contempo effetti di realtà , prestandosi anche a forme locali di riappropriazione. Solo un piccolo esempio: molta dell’arte “neo-tradizionale” che gira oggi in Africa, non è creata a partire da modelli presenti sul luogo, ma è ri-prodotta guardando alle fotocopie di cataloghi espositivi europei e americani.
Mostre e musei operano oggi sempre più come “zone di contatto” (Clifford 1999) luoghi di dialogo e di contestazione, in cui si negoziano le rispettive identità dando loro visibilità.
Anche le mostre virtuali dunque si situano in questo alveo: per quanto si avvalgano di nuove tecnologie e vadano comprese nella loro specificità, non introducono una radicale discontinuità con ciò che le precede.
A ben guardare Internet non è solo una tecnologia di comunicazione di cui si può far uso per scopi espositivi, ma costituisce nel suo insieme una Grande Biblioteca e Museo, una collezione di collezioni, non più costretta entro le mura di edifici che finiscono con l’essere sempre troppo piccoli (Rieu 2007). I musei e le esposizioni virtuali e la rete nel suo insieme prolungano e realizzano quello che per Malraux (2007) era un Museo immaginario che poteva stare solo nelle pagine di un libro, mettendo insieme cose che sono fisicamente lontane. Da un lato smaterializzano oggetti ed esperienze ma dall’altro, costruendo ambienti immersivi e interattivi, cercano di accrescere il coinvolgimento del “visitatore”, andando oltre l’esperienza contemplativa dello spettatore posto davanti allo schermo. Più in profondità queste tecnologie riconfigurano anche le strategie di ricomposizione dei conflitti che si giocano intorno al patrimonio materiale: gli oggetti che riempiono i musei occidentali, razziati in Africa e altrove nel periodo coloniale e di cui oggi molti paesi chiedono la restituzione, possono restare materialmente dove stanno ed essere restituiti virtualmente sotto forma di banche dati ed esposizioni virtuali. Si tratta di una restituzione “reale” o di uno stratagemma per evitarla? Più in generale: una visita virtuale ci dispensa dal vedere l’opera in presenza? La sua riproduzione virtuale rende superflua l’opera nella sua materialità?
Nella prospettiva di un’antropologia della contemporaneità che si faccia carico delle forme digitali della cultura (Escobar 1994; Coleman 2010; Budka 2011) potremmo chiederci in che termini e in che misura queste nuove forme sociali di costruzione della realtà vengano create e negoziate; come vengano recepite da coloro che le visitano e come contribuiscano a modificare i loro convincimenti e le loro opinioni; come persone diverse per genere, classe sociale, formazione culturale e provenienza geografica ne facciano un uso differenziato (Niezen 2005); come queste operazioni si leghino alle trasformazioni più generali in atto nella museologia contemporanea, nel sistema dell’arte, nelle politiche e nell’economia della cultura.
Domande che per avere una risposta richiedono un’etnografia multisituata, che si sviluppi tanto on line che off line, che indaghi le concrete modalità di funzionamento di questi dispositivi, le loro finalità dichiarate ed effettive, le retoriche discorsive che le animano, le risorse materiali cui attingono, le relazioni che generano dentro e fuori la rete.
Chapter Zero – AtWork non si limita a riunire delle opere d’arte entro uno spazio virtuale ma mette insieme, facendole collidere, due diverse forme di raccolta, messa in forma, registrazione e archiviazione dell’esperienza: tecnologie digitali e taccuini, manualità e ingegneria, passato e presente.
Molto di ciò che chiamiamo “Africa” è passato attraverso i libri e le illustrazioni (saggi, romanzi, biografie, racconti di viaggio – Miller 1985, Koivunen 2009) ma il taccuino non è il libro. Talora, come raccolta di appunti, ne costituisce la fase preparatoria (così come un album di schizzi può precedere l’opera dell’artista) ma può essere anche qualcosa di finito in se stesso, scrittura privata e intima, diaristica, non destinata alla pubblicazione o, come accade nel nostro caso, non semplice supporto ma parte integrante di un’opera d’arte compiuta.
Il taccuino è strettamente associato alla dimensione del viaggio e per questa via all’Africa. Non c’è antropologo o artista (e spesso anche turista) senza taccuino: le maschere e sculture africane di epoca coloniale che ritraggono l’antropologo, lo rappresentano con il taccuino in mano, questo è sufficiente a identificarlo (anche se oggi si usano registratori e videocamere).
Perché il taccuino si leghi così strettamente al viaggio è chiaro: si trasporta con facilità perché piccolo e leggero, si compila agevolmente perché la copertina rigida non richiede un piano di appoggio o lo stare seduti mentre si scrive. Ma non è solo una questione di funzionalità: il taccuino di viaggio è l’oggetto di un intenso investimento affettivo e di una forte fascinazione estetica: diviene presto un tutt’uno con la persona che se lo porta in tasca. Nel corso del viaggio le sue pagine si riempiono man mano, con un differimento minimo rispetto all’esperienza che si sta vivendo. Nel modo in cui ciascuno fa uso degli spazi, distribuendovi segni e disegni secondo una ritmica di pieni e di vuoti che è sempre particolare, emerge uno stile individuale, un’indelebile impronta personale. Proprio per questo diversamente da un libro a stampa, un taccuino più che letto va guardato: nel manoscritto la calligrafia è forse più importante del significato. Questo lo avvicina all’opera d’arte.
Quel che forse più ci affascina in un taccuino è che entrandovi abbiamo l’impressione di non arrivare a cose finite (come è invece è nel libro e forse anche in molte opere d’arte) ma di assistere agli eventi nell’atto di compiersi. Nel taccuino sembra esserci un di più di vita, di incertezza, di imponderabilità che nell’opera finita, per quanto aperta, poi si perde. Ovviamente non è che le cose stiano proprio così: anche nelle nostre scritture private in qualche modo ci rivolgiamo a qualcuno, scriviamo nell’inconfessata attesa di essere letti o di poter rileggere, a distanza di tempo, quanto abbiamo scritto; per quanto meno codificati, anche gli appunti e gli schizzi di un taccuino rispondono a convenzioni e si rifanno a una tradizione e a modelli illustri (Emerson, Fretz, Shaw 1995). E questo naturalmente vale anche per l’Africa che dai taccuini di viaggio transita.
Proprio per queste ragioni un’opera d’arte che faccia uso di un taccuino non si modella su di un supporto neutro e puramente materiale, ma si riconnette più o meno consapevolmente a un’eredità culturale, immateriale, che è fatta di echi e rimandi.
Tutto questo a maggior ragione quando al taccuino si associa un brand come quello di Moleskine, che nel riprodurre “il leggendario taccuino degli artisti e intellettuali degli ultimi due secoli, da Vincent Van Gogh a Pablo Picasso, da Ernest Hemingway a Bruce Chatwin” circonda l’oggetto in un’aura da cui tutti, per un modico prezzo, possiamo essere avvolti. Con la sua copertina nera, anonima e severa, Moleskine introduce nella colorata società dell’immagine, un tocco di ascetismo e un ricercato anacronismo che ci riportano a un’epoca in cui il viaggio era esplorazione e avventura, predisponendo però anche e nel contempo, come ci viene detto, uno spazio creativo che è in “stretta connessione con il mondo digitale ” e il vivere contemporaneo. Come se per prendere slancio occorresse fare un passo indietro.
In questo spazio reale e immaginario, complesso e stratificato, attraversato da molteplici discontinuità temporali, hanno operato gli artisti presenti in questa mostra.