Negli ultimi dieci anni ho esplorato, attraverso una serie di progetti eterogenei, l’idea di una storia del Sudafrica al di fuori dei suoi confini geografici. L’assunto alla base della mia ricerca è che gli individui (come gli artefatti) si allontanano dal paese per una varietà di ragioni complesse e continuano la loro esistenza in uno spazio esterno. Spesso questi individui (e le storie che incarnano) rimangono ignoti in Sudafrica o vengono dimenticati. Il mio obiettivo è quello di rintracciare e raccogliere queste storie per restituirle in qualche modo a un pubblico contemporaneo. Per molti versi, la Moleskine fa parte di questo progetto e offre uno spaccato della musica sudafricana degli artisti in esilio. La musica dell’esilio abbraccia un periodo trentennale, che va dal 1959 al 1990, gli anni dell’apartheid. Nel taccuino ho disposto in ordine cronologico una selezione di etichette di dischi incisi da artisti sudafricani in esilio in quegli anni.
Insieme al taccuino vi sono anche due CD contenenti una selezione di brani musicali. Questo lavoro di ricerca non pretende di essere esaustivo né tanto meno rappresentativo di tutti gli artisti sudafricani in esilio o delle loro opere migliori. Si tratta piuttosto di una raccolta dei miei brani preferiti, quelli a cui sono più legato. Brani che a mio avviso catturano alcuni dei momenti più neri, ma anche più estatici, dell’esilio. L’alienazione, l’isolamento dell’esperienza all’estero emerge in molte delle tracce, specialmente negli assolo. Si tratta di frammenti di una memoria culturale i cui fraseggi e la rievocazione di sonorità majuba anni ’50 ci riportano istantaneamente a un luogo originario ormai lontano. Spesso tali frammenti cedono il passo a espressioni di estatica gioia, che appaiono come un invito a resistere ai momenti di sconforto.
Maggiori informazioni sulla musica presentata nel taccuino e nei CD sono disponibili su Electric Jive: http://electricjive.blogspot.com/2012/03/in-exile-volume-12.html.
Per ulteriori informazioni sulla musica sudafricana in generale è possibile visitare il sito: www.flatinternational.org.
(Durban, 1970, Sudafrica) Vive e lavora negli Stati Uniti
Siemon Allen è un artista sudafricano interessato al tema dell’identità sudafricana e alla sua rappresentazione attraverso la raccolta, l’allestimento e l’esposizione di artefatti storici. In Sudafrica è stato tra i fondatori della galleria FLAT, un progetto artistico nato a Durban tra il 1993 e il 1995, un biennio molto significativo dal punto di vista politico. In occasione della seconda Biennale di Johannesburg nel 1997, Allen ha realizzato presso la South African National Gallery una grande installazione architettonica costruita intrecciando nastri di videocassette. Le sue opere sono state esposte più volte negli Stati Uniti e in Sudafrica. Tra le mostre più importanti, Stamps, allestita presso la Renaissance Society di Chicago, la galleria Artists Space di New York e il Corcoran Museum of Art di Washington; Newspapers (The American Effect), presso il Whitney Museum di New York; A Fiction of Authenticity presso il Contemporary Art Museum di St. Louis. Nel 2009, versioni più ampie di Stamps, Newspapers e Records sono state esposte nella personale Imaging South Africa, presso la Durban Art Gallery e la Bank Gallery in Sudafrica. Il collage ispirato a Tintin, Land of Black Gold, è in mostra nella collettiva Found in Translation al Deutsche Guggenheim di Berlino. Siemon Allen è visiting professor presso il Dipartimento di Scultura e Media della Virginia Commonwealth University di Richmond, in Virginia.
“Il mio lavoro è il frutto di una serie di attività eterogenee, ma connesse tra loro”, afferma Siemon Allen. “Colleziono artefatti, li organizzo e li metto in mostra. Campiono suoni provenienti da fonti diverse e li combino per realizzare opere sonore, integrandole all’interno di sculture o installazioni. Costruisco pannelli di grandi dimensioni intrecciando nastri di film o di videocassette, per realizzare un’opera a metà tra pittura e architettura. Creo e produco libri d’arte in edizione limitata. Il filo rosso che lega tra loro queste pratiche apparentemente diverse è il bisogno di conciliare il mio interesse per la politica con il linguaggio dell’estetica. Cerco di accostarmi a ogni progetto con l’atteggiamento distaccato del ricercatore. Voglio che la critica sociale che inevitabilmente scaturisce dalla mia opera agisca sottilmente, mettendo in evidenza la contraddittorietà e la complessità dell’identità sudafricana. Paradossalmente, gran parte del mio lavoro nasce dalla mia permanenza negli Stati Uniti, dove ho potuto osservare e ricostruire l’immagine del Sudafrica attraverso artefatti storici (francobolli), mass media (giornali) o stimoli sonori (collezioni di suoni). In un certo senso, la mia opera esprime il distacco dell’individuo dalle proprie origini ed è, in fondo, un’esplorazione dei concetti di identità e rappresentazione attraverso il dislocamento”.